Ingegneri e architetti: necessità di una riforma delle professioni.

Non è possibile comprendere il quadro normativo attuale ponendosi al di fuori di ogni prospettiva storica, non solo perché è valida la massima ciceroniana “Historia magistra vitae” ma soprattutto perché l’attuale ordinamento professionale aderisce pienamente e coerentemente al momento storico in cui fu emanato (e per nulla all’attuale).

Sarebbe assai saggio fare tabula rasa di tutto un apparato normativo che era – a giudizio di chi scrive –  valido quando fu concepito, all’inizio del secolo scorso e che risulta, oggi, decisamente superato dai tempi ed incomprensibile se non lo si riferisce a quel momento storico. Per far superare le obsolete Normative (tutt’ora vigenti) è utile comprendere la genesi e le finalità che si prefiggevano.

Gli ingegneri e gli architetti hanno un unico ordinamento professionale, il Regio Decreto 23 ottobre 1925, n. 2537 (titolato «Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 37 del 15 febbraio 1926). Tale decreto è tutt'oggi in vigore e attua la Legge n. 1395 del 24 giugno 1923 («Tutela del titolo e dell’esercizio professionale degli ingegneri e degli architetti», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 167 del 17 luglio 1923).

Quando il Regio Decreto n. 2537/1925 vedeva la luce, esistevano ben sette modi di diventare Architetto.

Avevano diritto, in un regime transitorio, d'iscriversi all'Albo degli Architetti:

1)    i diplomati di Accademie ed Istituti di Belle Arti che potevano comprovare di aver esercitato "lodevolmente" per cinque anni la professione di architetto;

2)    i professionisti non diplomati che avessero, sempre "lodevolmente", esercitato la professione per 10 anni;

3)    i titolari del diploma di «architetto civile» rilasciato dalla Scuola superiore di Architettura di Roma;

4)    i titolari di laurea di «ingegnere-architetto» rilasciata dalla Sezione Architettura delle Reali Scuole di Ingegneria di Bologna, Padova, Napoli, Palermo e Roma;

5)    i diplomati architetti degli antichi stati italiani;

6)    i professionisti che, comunque, risultavano abilitati all'esercizio della professione;

7)    i «Baumeister», cioè gli architetti dell'ex Impero Austro-Ungarico (la grande guerra si era conclusa appena 5 anni prima della la Legge n. 1395/1923 e parecchi territori del nord-est erano, da poco, diventati italiani).

Allorché, nel 1863, nacque il Politecnico di Milano, erano previste le sole due figure dell'ingegnere civile e dell'ingegnere industriale. Nel 1865 nasce la figura dell'ingegnere-architetto (e ciò ci fa comprendere quale era il professionista di cui al precedente punto 4). Nel 1866 viene creata, anche a Torino, una sezione per architetti e rilasciato il titolo di architetto civile. L'«ingegnere-architetto» era un laureato che assommava (con un'unica laurea) entrambi i titoli.

E’ da precisare che, prima della riforma Gentile del 1923, vigeva la legge Casati del 1859 e non era prevista una scuola per architetti.

L’esercizio della professione di Architetto – fino all’emanazione dei ricordati provvedimenti legislativi, risalenti all’inizio degli anni ’20 del XX secolo – era svolto, in larghissima parte, da professori di disegno sfornati dalle Accademie ed Istituti di Belle Arti, che formeranno il folto gruppo di cui al precedente punto 1.

E’, anzi, interessante notare che i primi Presidi della Facoltà di Architettura di Napoli sono tutti sprovvisti di laurea. Infatti abbiamo, come primo Direttore della "Real Scuola di Architettura di Napoli" (creata dal D.M. n. 1186 del 12 gennaio 1928) Raimondo D’Aronco, affiancato dall’on. Mattia Limoncelli.

In buona sostanza, le due figure professionali di architetto e di ingegnere – come oggi le intendiamo – nascono insieme, non a caso l’ordinamento professionale è lo stesso ed anche l’Ordine professionale, originariamente, fu unico.

Prima del XX secolo, lo studio dell'Ingegneria avveniva al di fuori delle Università e era riferito ad esigenze essenzialmente militari: ne costituirono in Italia esempi importanti la Scuola di Ingegneria militare di Modena e la Scuola di Applicazione per Ingegneri di ponti e strade di Napoli, fondata il 18 novembre 1808 da Gioacchino Murat sul modello parigino dell'École des Ponts et Chaussées. Si tratta, quindi, di strutture appartenenti al Genio Militare e, allorché si tentò di uscire da questa logica, l’avvento al potere di Napoleone servì a riportare l’Ecole a caserma e gli ingegneri a ufficiali.

La prima Scuola di Ingegneria, finalizzata a conferire patenti di libero esercizio professionale, fu quella istituita con motu proprio del 23 ottobre 1817 da Papa Pio VII, al secolo Barnaba Chiaramonti. Si può sostenere che quella rappresentò l’apparizione – sebbene in forma embrionale – del moderno “ingegnere civile”.

Pio VII nel 1819 in un ritratto di Thomas Lawrence.

È curioso notare che Il Papa Pio VII è quello che appare (magistralmente interpretato da Paolo Stoppa) nel film del 1981 «Il marchese del Grillo» diretto da Mario Monicelli e con l’indimenticabile Alberto Sordi come attore protagonista.

In ogni caso, la formazione sia dell’architetto che dell’ingegnere (prodotta in maniera molteplice e confusionaria) era extrauniversitaria, fino a buona parte del XIX secolo. Le scuole di Architettura e di Ingegneria diventando facoltà universitarie in base all’articolo unico della legge n. 1100 del 13 giugno 1935, con la quale il Ministro Cesare Maria De Vecchi ottiene i pieni poteri per decidere entro tre anni la «soppressione, l’istituzione o la fusione di Facoltà, Scuole e insegnamenti universitari nonché l’aggregazione di Regi Istituti superiori alle Regie Università».

La Legge n. 1395 del 24 giugno 1923 e il successivo Regio Decreto 23 ottobre 1925, n. 2537 non appaiono, evidentemente, come fulmini a ciel sereno. Sono il traguardo di un percorso avviato, alla Camera, nel 1904 dall’onorevole Luigi De Seta (ingegnere) teso a regolamentare l’attività degli ingegneri e degli architetti, esautorando dalla professione i possessori del diploma di professore di disegno architettonico (cioè quelli di cui al punto 1 dei 7 elencati modi di diventare architetto, detti all'inizio).

L’intero processo di costruzione delle due figure professionali (che va dal 1923 al 1938) fa comprendere che esse – piaccia o non piaccia – hanno come padre il fascismo. Addirittura, per quant’attiene l’organizzazione dell’università si giunge al punto di sancire che, in merito ai concorsi universitari, la decisione del Ministro è insindacabile e che per i concorsi a libero docente è obbligatorio presentare «certificato rilasciato dal Segretario della Federazione dei fasci di combattimento della provincia in cui ha domicilio il candidato, attestante l’iscrizione al partito nazionale fascista con l’indicazione della data d’iscrizione». Il processo di fascistizzazione della formazione e della professione durerà buona parte degli anni ’30. Ad esempio, l’art. 18 del decreto del 28 agosto 1931, pubblicato l’8 ottobre sulla G.U., perfeziona, per tutti i docenti universitari, il giuramento richiesto dal regolamento generale universitario del 1924. La nuova formula prescrive che essi dovevano formare cittadini non solo «devoti alla patria» ma anche «al regime fascista» e si impegnavano a non «appartenere ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio». È noto che solo 10 (su 1200) docenti universitari rifiutarono di rendere giuramento al fascismo (e persero il posto).

Gli articoli più importanti del R.D. 2537/1925 (tutt’ora in vigore), che fissano oggetti e limiti della professione di ingegnere e di architetto, sono il 51 e il 52, qui di seguito riportati:

«Art. 51. - Sono di spettanza della professione d'ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo».

«Art. 52. - Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L.20 giugno 1909, n. 364 (5), per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere».

L’art. 51 (testé riportato) conferisce all’ingegnere un campo professionale pressoché illimitato ed è coerente con la situazione dell’epoca, caratterizzata da un particolare percorso formativo: un biennio propedeutico impartito nella Facoltà di Scienze e un triennio di applicazione (presso le nascenti Facoltà di Ingegneria) articolate in poche sezioni: la sezione Civile (con le solo tre sottosezioni Edile, Idraulica e Trasporti) e sezione Industriale (articolata in Ingegneria Meccanica e Ingegneria Elettrotecnica). Solo in seguito appariranno altre specializzazioni (nei primi anni '30).

Profondamente diversa è la situazione attuale, in cui gli studi di Ingegneria (a mio giudizio opportunamente) si è articolata in numerose classi di interesse, creando una molteplicità di classi di laurea. Per le sole Lauree specialistiche:

·classe 4/S- Architettura e Ingegneria Edile

·classe 25/S- Ingegneria Aerospaziale e aereonautica

·classe 26/S- Ingegneria Biomedica

·classe 27/S- Ingegneria Chimica

·classe 28/S- Ingegneria Civile

·classe 29/S- Ingegneria dell’Automazione

·classe 30/S- Ingegneria delle Telecomunicazioni

·classe 31/S- Ingegneria Elettrica

·classe 32/S- Ingegneria Elettronica

·classe 33/S- Ingegneria Energetica e nucleare

·classe 34/S- Ingegneria Gestionale

·classe 35/S- Ingegneria Informatica

·classe 35/S- Ingegneria Meccanica

·classe 38/S- Ingegneria per l’ambiente e il territorio

·classe 50/S- Modellistica matematico-fisica per l’ingegneria

Si è tentato di porre rimedio all’anomalia di un troppo ampio campo di competenza dell’ingegnere con il Decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 2001, n. 328 (Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 17 agosto 2001 n.190 - Supplemento Ordinario n.212/L) - «Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove per l'esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti» che ha articolato gli Albi in tre sezioni: quella dell’ingegnere civile-ambientale, quella dell’ingegnere industriale e quella dell’ingegnere dell’informazione. Difatti, l’art. 46 di detto DPR 328/2011 testualmente recita:

«1. Le attività professionali che formano oggetto della professione di ingegnere sono così ripartite tra i settori di cui all'articolo 45, comma 1:

a)   per il settore "ingegneria civile e ambientale": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di opere edili e strutture, infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione, di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per l'ambiente e il territorio;

b)   per il settore "ingegneria industriale": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di macchine, impianti industriali, di impianti per la produzione, trasformazione e la distribuzione dell'energia, di sistemi e processi industriali e tecnologici, di apparati e di strumentazioni per la diagnostica e per la terapia medico-chirurgica;

c)   per il settore "ingegneria dell'informazione": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo e la gestione di impianti e sistemi elettronici, di automazione e di generazione, trasmissione ed elaborazione delle informazioni».

Le normative si accavallano, non superano quelle precedenti e introducono assurde ed inutili complicazioni. Il suddetto DPR 328/2001 – invece di abrogare l’inutile Esame di abilitazione alla professione (per altro previsto dalla Costituzione) che si svolge in condizioni disumane ed arretrate e che rappresenta un’autentica iniziazione alle fregatura della vita, con brogli vari e fughe di notizie che hanno portato a sentenze di condanna, per soggetti beccati “con le dita nella marmellata” – complica inutilmente ed assurdamente le prove dell’Esame di Stato. Per l’iscrizione al settore “architettura” sono previste ben 4 prove (di cui all’art. 17) qui di seguito riportate:

«1) una prova pratica avente ad oggetto la progettazione di un'opera di edilizia civile o di un intervento a scala urbana;

2) una prova scritta relativa alla giustificazione del dimensionamento strutturale o insediativo della prova pratica;

3) una seconda prova scritta vertente sulle problematiche culturali e conoscitive dell'architettura;

4) una prova orale consistente nel commento dell'elaborato progettuale e nell'approfondimento delle materie oggetto delle prove scritte, nonché sugli aspetti di legislazione e deontologia professionale».

In particolare, il “tema in classe” di cui alla terza prova è semplicemente risibile e frutto di masturbazioni mentali, del tutto avulse dalla realtà.

Dicevamo poc’anzi, che il friulano D’Aronco è Direttore della "Real Scuola di Architettura di Napoli" (creata dal D.M. n. 1186 del 12 gennaio 1928); nasce a Godo (frazione di Gemona) il 31 agosto 1857. Ventenne, si iscrive ai corsi di ornato e architettura dell'Accademia di Belle Arti di Venezia, diplomandosi nel 1880. Quindi, a 23 anni, aveva già concluso il suo iter formativo, compreso il periodo, di un paio d’anni, in cui era stato semplice muratore a Graz (Austria).

Con R.D. 2127 del 27 ottobre 1935, l'Istituto Superiore di Architettura di Napoli divenne Facoltà di Architettura.

Il primo Preside (nel vero senso della parola) sarà Alberto Calza Bini, anch’Egli privo di laurea. Sarà Preside dal 1936 al 1941 e dal 1950 al 1955 (dopo aver fatto dimenticare i suoi trascorsi fascisti e aver, addirittura, vissuto un periodo di internamento nel campo che gli alleati allestirono a Padula). Dal 1941 al 1950 è Preside Marcello Canino.

Alberto Calza Bini

Alberto Calza Bini nasce a Roma il 7 dicembre 1881 e si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Roma a 20 anni, intraprendendo un’attività – pare alquanto apprezzata – di pittore e acquafortista. Colmerà, per conto suo, le lacune nel campo della Scienza delle Costruzioni.

Al di là del giudizio politico che si può esprimere, Calza Bini mostrò notevoli doti organizzative e occupò un ruolo centrale nel processo politico che portò alla completa definizione della figura dell’architetto. Lo definirei, innanzitutto, un manager, che sapeva muoversi molto bene negli ambienti politici romani.

Alberto Calza Bini (con la barba bianca), alla sinistra del ministro Cobolli Gigli (Fondo Istituto Luce Cinecittà).

Lo scopo del complesso lavorio iniziato – anche da Calza Bini – agli albori del XX secolo e pressoché terminato con le suddette leggi, era quello di giungere ad un Albo degli Architetti, che raggruppasse solo tecnici laureati, giunti al termine di un valido e prestabilito percorso formativo, atto a formare il cosiddetto Architetto “integrale”. Il modello di riferimento fu la scuola di Roma.

E’ chiaro che occorreva passare per una fase transitoria, immettendo nell’Albo, quanti – sprovvisti di laurea, ma in possesso di un diploma – potevano dimostrare di aver esercitato "lodevolmente" per cinque anni la professione di architetto. Addirittura poteva essere iscritto all’Albo (sempre nel regime transitorio iniziale) chi non possedeva nemmeno il diploma; ma, in questo caso, doveva essere di almeno 10 anni il periodo di “lodevole” esercizio della professione (si tratta del secondo modo di diventare architetto, tra i 7 elencati all’inizio).

Ci fu una grande sanatoria. Nella prima ondata, immediatamente dopo il varo del Regio Decreto 23 ottobre 1925, n. 2537, ben 1310 persone chiesero di usufruire di questa sorta di “condono”. Una commissione ad hoc, presieduta da Gustavo Giovannoni, nel triennio 1926-1928 esaminò le domande ed abilitò 694 nuovi architetti, fra i quali non mancano nomi illustri. Rimase escluso Carlo Scarpa, diplomatosi professore di disegno nel 1926 (e che, quindi, non poteva esibire i 5 anni di "lodevole" esercizio della professione). Noto è l’ostracismo di cui fu oggetto Scarpa da parte dall’Ordine interprovinciale di Venezia, Belluno, Rovigo e Vicenza, che gli addebitò l’uso abusivo del titolo di Architetto. Carlo Scarpa (6 giugno 1906, 28 novembre 1978) collezionò tre denunce nel 1956, nel 1959, nel 1963 ed un esposto nel 1964.

Carlo Scarpa

Giovannoni, nella sua relazione finale ai lavori della commissione, non ha remore nel dichiarare che questi 694 “miracolati” erano quanti, nonostante studi “imperfetti e unilaterali”, avevano comunque maturato un’esperienza sul campo, tramite il pratico e “lodevole” esercizio della professione. I più saranno considerati architetti “semicompetenti”, destinati, nel tempo, a sparire (come fu) per lasciare il posto a quanti acquisivano la laurea, nelle nascenti Facoltà di Architettura, alcune delle quali – diciamoci la verità – non hanno disatteso le aspettative e sono riuscite, negli anni, a formare Architetti di indiscussa qualità.

Mai si sarebbe immaginato che avremmo avuto gli Architetti junior, ai quali sono assegnate competenze professionali certamente inferiori a quelle degli architetti “semicompetenti” di ottant’anni fa, i quali, comunque, furono iscritti all’Albo praticamente senza limitazioni di sorta nell’esercizio della professione (se non la preclusione, sporadicamente registratasi, alla partecipazione di qualche concorso).

Potremmo, quindi, sostenere le recenti riforme universitarie e le pseudo-riforme della professione, ben lungi dall’adeguare ai tempi gli stantii ordinamenti dei primi anni ’20 del secolo scorso, hanno creato danno e prodotto un riavvolgimento della Storia, un ritorno ad una confusa situazione che, bene o male, fu superata dalla legislazione fascista.

Ritorniamo alla Legge n. 1935 del 24 Giugno 1923, che rappresenta l’Ordinamento professionale degli ingegneri e degli architetti tuttora vigente. Tale Legge, costituita da solo 7 articoli, aveva due obbiettivi fondamentali: 1) la tutela del titolo professionale e 2) l’istituzione dell’Ordine provinciale unico per architetti e ingegneri.

Pertanto, la legge istitutiva degli Ordini non contemplava affatto due Ordini distinti (uno per gli architetti e uno per gli ingegneri), bensì un solo Ordine che li comprendeva entrambi e che appariva la soluzione più razionale, giacché l’Ordinamento professionale è lo stesso. D’altronde – oggi e per analogia – non esistono due Casse di previdenza distinte, bensì una sola: l’Inarcassa (Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti). E, come se non bastasse, anche la tariffa professionale (quando esisteva) era la stessa e si tratta della Legge 2 marzo 1949, n. 143 - «Approvazione della tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti» - G.U. n. 90 del 19 aprile 1949, più volte aggiornata e rimasta in vigore fino al decreto-legge Bersani, del 2006, che l’abrogò.

Com’è che, da un solo iniziale Ordine professionale, se ne formano due? È una trovata – ancora – del fascismo, il quale emanò il Regio Decreto 27 ottobre 1927, n. 2145 «Norme di coordinamento della legge e del regolamento sulle professioni di ingegnere e di architetto con la legge sui rapporti collettivi del lavoro, per ciò che riflette la tenuta dell’albo e la disciplina degli iscritti» (G.U. n. 277 del 30 novembre 1927). L’art. 1 esordisce con la frase «L’albo degli ingegneri è separato da quello degli architetti». La stessa Legge n. 2145/1927 demandò la custodia degli Albi e la disciplina degli iscritti ai Sindacati e, per gli architetti, al Sindacato Fascista Architetti, di cui Alberto Calza Bini fu organizzatore e segretario, dal 1923 al 1936.

Pertanto gli Ordini professionali, sebbene istituiti con Legge del 1923, non nasceranno che nel secondo dopoguerra.

È impossibile non evocare il passo di gambero detto poc’anzi. Dopo settant’anni dalla liquidazione del sindacato fascista architetti e la creazione degli Ordini professionali dell’Italia democratica, si è frantumata la figura unitaria dell’Architetto e, oggi, l’Ordine comprende:

1) Architetti;

2) Pianificatori territoriali;

3) Paesaggisti;

4) Conservatori dei beni architettonici e ambientali;

5) Architetti junior;

6) Pianificatori junior.

Veniamo, adesso, alla ciliegina sulla torta: la Legge 25 aprile 1938, n. 897 (tuttora in vigore), titolata «Norme sulla obbligatorietà dell'iscrizione negli albi professionali e sulle funzioni relative alla custodia degli albi», pubblicata nella Gazz. Uff. 7 luglio 1938, n. 152. È evidente che ci troviamo di fronte a una delle leggi razziali. Questa legge sancisce l’obbligatorietà dell’iscrizione all’Ordine, giacché, precisa che «Gli ingegneri, gli architetti … non possono esercitare la professione se non sono iscritti negli albi professionali delle rispettive categorie a termini delle disposizioni vigenti» e, all’art. 2, aggiunge «Coloro che non siano di specchiata condotta morale e politica non possono essere iscritti negli albi professionali, e, se iscritti, debbono esserne cancellati, osservate per la cancellazione le norme stabilite per i provvedimenti disciplinari». Qual era lo scopo della Legge n. 897/1938? È evidente: espellere dal mondo della professione ebrei, dissidenti e soggetti con diverso orientamento sessuale.

È davvero incredibile che questa legge razziale del ’38 sia tutt’oggi in vigore.

Rischi di espulsione dagli Ordini si ripresentano, oggi, con la parodia della cosiddetta «formazione continua obbligatoria» (autentico business che obbliga a collezionare inutili CFP, crediti formativi professionali). Almeno il fascismo aveva la sua tragica grandezza e il lavoro (soprattutto per gli architetti) non mancava. Viene in mente il noto aforisma di Carlo Marx: «La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa».

La «formazione continua obbligatoria» - così come concepita ed attuata in Italia – è un’errata interpretazione, finalizzata a mantenere il carattere corporativo impresso dal fascismo alle organizzazioni professionali, della «Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea» (nota anche come «Carta di Nizza»), promulgata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza e ribadita una seconda volta il 12 dicembre 2007 a Strasburgo da Parlamento, Consiglio e Commissione. La Carta enuncia i diritti e i principi da porre a base dell'Unione Europea. Di nostro interesse sono gli artt. 14 e 15, qui di seguito integralmente riportati:

«Articolo 14 Diritto all’istruzione

1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua.

2. Questo diritto comporta la facoltà di accedere gratuitamente all’istruzione obbligatoria.

3. La libertà di creare istituti di insegnamento nel rispetto dei principi democratici, così come il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche, sono rispettati secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.

Articolo 15 Libertà professionale e diritto di lavorare

1. Ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata.

2. Ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro.

3. I cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione».

Si comprende, allora, bene che la cosiddetta «formazione continua obbligatoria» non fu affatto concepita come dovere/obbligo (da sanzionare pesantemente nel caso di inottemperanza), bensì come diritto/opportunità (da cogliere liberamente, come, d’altronde, sancisce il comma 1 dell’art. 15 appena citato).

L’Ordine degli Architetti, addirittura, ha cambiato nome, diventando l’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, per giunta articolato in due sezioni: la A e la B. Alla prima si accede dopo aver sostenuto l’esame di Stato con il titolo di laurea specialistica quinquennale. Per la sezione B occorre superare l’esame di Stato, con il titolo di laurea triennale. Tutto ciò in ossequio a quanto disposto dal D.P.R. 328/01, pubblicato sul supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 190 del 17 agosto 2001.

È stupefacente il fatto che gli Ordini (e soprattutto i Consigli Nazionali) hanno assecondato queste autentiche follie.

Abbiamo visto, allora, che gli Ordini degli Architetti, in realtà, nascono col crollo del fascismo e l’avvento della Repubblica. Abbiamo, altresì, visto che, dal 1923 alla caduta del fascismo (che potremmo datare al Gran Consiglio del 25 luglio 1943 e all’ordine del giorno Grandi), gli Albi sono tenuti dal sindacato fascista architetti, di cui è segretario prima Alberto Calza Bini (dal 1923 al 1936) e, poi, Enrico Del Debbio.

Ovviamente c’era anche il sindacato fascista ingegneri, per lungo tempo capeggiato da Edmondo Del Bufalo, fascista della prima ora, presente alla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano e organizzatore di squadre d'azione, deputato per tre legislature, senatore dal 1943 decaduto per sentenza dell'Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il fascismo (in pari data con Calza Bini).

Mussolini in posa con i membri del Direttorio del Sindacato Fascista Ingegneri (Fondo Istituto Luce Cinecittà).

L’Ing. Edmondo Del Bufalo (laureatosi nel 1907) è figura di spicco quanto l’Arch. Alberto Calza Bini, riceverà incarichi professionali di spicco ed è tra i redattori del Piano Regolatore Generale di Roma del 1931 insieme a Giovannoni, Piacentini ed altri (vado a memoria e potrei essere impreciso). Mi astengo da ogni giudizio storico-politico, ma è certo che questi personaggi avessero non trascurabili capacità di incidere sulla realtà e determinare il corso delle professioni.

Edmondo Del Bufalo

L’Ordine degli Architetti di Napoli nasce nel 1944 con il primo Consiglio formato da Roberto Pane (Presidente), Filippo Mollica (Segretario), Vincenzo Gentile, Wladimiro Nespoli, Mario Russo e Giovanni Sepe.

Le dissennate riforme dell’università (avviate negli anni ’60 del secolo scorso) e le “non riforme” della professione (retta tutt’oggi, come si è visto, da obsolete leggi che vanno dal 1923 all’epoca in cui era Luogotenente generale del regno Umberto di Savoia) hanno distrutto le professioni di cui mi sto occupando. Difatti, la serie delle iniziali norme (tutt’ora in vigore) si chiude con il Decreto legislativo luogotenenziale del 23 novembre 1944, n. 382 (Gazzetta Ufficiale del 23 dicembre 1944, n. 98) «Norme sui Consigli degli Ordini e Collegi e sulle Commissioni centrali professionali», il quale – in buona sostanza – precisa le funzioni, la composizione e le modalità di elezioni dei Consigli degli Ordini.

Molto ha influito, sulla crisi (prima d’identità e, poi, economica della categoria professionale) l’esorbitante crescita degli ingegneri e degli architetti. Questi ultimi, all’origine nel numero bastevole a celebrare i fasti del regime fascista (motivo per il quale furono creati e “protetti” fino al crollo mussoliniano) sono numericamente cresciuti oltre il limite dell’immaginabile.

Ad esempio, nel 1938 c’erano 79 architetti in Campania, 6 in Abruzzo, 3 in Calabria e nessuno in Basilicata. In totale 88 architetti in quello che, dopo il secondo conflitto mondiale, sarà l'Ordine degli Architetti della Campania, Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria.

Gli iscritti a quest’Ordine (che comprendeva Campania, Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria) sono 120 nel 1949, 151 nel 1953, 200 nel 1956 e 265 nel 1958.

Ed è continuata questa crescita, in maniera sempre più esponenziale: l’Ordine degli Architetti di Napoli è passato da poco più di 1500 iscritti del 1978 (allorché era Ordine degli Architetti della Campania, Abruzzo, Molise e Basilicata, essendosi staccata la Calabria) a 1681 nel 1984, 1986 nel 1986 (per una strana coincidenza abbiamo il numero degli architetti pari all'anno), 2312 nel 1988 (l’Ordine, adesso, comprende solo le province di Napoli e Isernia), 2604 nel 1990 (da adesso in poi solo la provincia di Napoli), 2960 nel 1992, 3451 nel 1994, 4668 nel 1999, 5377 nel 2001 e ben 6992 nel 2005 (di cui 6981 della sezione A e solo 11 della B). Nel 2013 siamo a 8591 iscritti all’Ordine della sola Provincia di Napoli (8469 della Sez. A e 122 della B). Oggi siamo poco sotto i 9000 e veleggiamo verso i 10.000.

Gli architetti sono troppi. A Napoli e provincia c’è un Architetto ogni 340 abitanti. Gli ultimi dati nazionali certi parlano di 1 Architetto ogni 470 abitanti.

Qual è la media mondiale? Un Architetto ogni 3757 abitanti.

In Francia c’è un Architetto ogni 2128 abitanti. In Inghilterra il rapporto è 1 a 1925, in Spagna 1 a 1214 e in Germania 1 a 1642. La media europea è di un Architetto ogni 1148 abitanti e, senza il dato italiano, il rapporto scenderebbe a 1/1550.

Ultima considerazione, per ritornare al fenomeno di riavvolgimento della storia detto all’inizio: come funzionava, una volta, la Facoltà di Ingegneria? Essa (come già accennato in precedenza) durava 3 anni, ma si accedeva solo dopo aver superato il biennio presso la Facoltà di Matematica e Fisica. Ovviamente, nell’arco di questo biennio di studi, si assimilavano quelle materie che definirei “basilari” (Analisi Matematica, Geometria analitica e descrittiva, Fisica, Chimica, ecc.). Poi, l’allievo decideva se laurearsi in Matematica (tramite ulteriori 2 anni di studio) oppure iscriversi a Ingegneria (che, come appena detto, durava 3 anni e iniziava ad avere delle specializzazioni). Insomma, c’era il 2+3. Oggi abbiamo il 3+2. Si dirà che, invertendo l’ordine degli addendi, la somma non cambia (2+3=5 e 3+2=5). In realtà non è così. Prima c’era una logica: venivano prima le basi e poi la specializzazione. Si realizzavano prima le fondazioni e, poi, la struttura in elevazione. Oggi si persegue l’assurda idea di fare il contrario.

Anche l’introduzione delle «lauree triennali» è un nefasto apporto della UE, giacché furono proprio le dichiarazioni della Sorbona (Parigi 25 maggio 1998) e quella di  Bologna (19 Giugno 1999) che videro la grandissima maggioranza dei paesi europei concordare sulla necessità di articolare i processi formativi sui due livelli, di cui il primo di durata almeno triennale. Attuata la riforma le lauree triennali italiane, si sono (purtroppo) rivelate carta straccia, giacché secondo la Commissione europea servono almeno quattro anni di studi per esercitare la professione nei Paesi Ue. Pertanto gli architetti «junior» possono lavorare solo in Italia. Il tutto è avvenuto col compiacente silenzio dei Consigli Nazionali.

Ho ricordato, più volte ed in altre circostanze, che la figura professionale del geometra fu creata con Regio Decreto 11 febbraio 1929, n. 274, 88 anni fa. Perché si creò questa figura di tecnico diplomato? Perché – in Italia – il Tecnici laureati (ingegneri e architetti) erano pochissimi, nel 1929 (88 anni fa) e il lavoro era tanto, tantissimo. Soprattutto in campo rurale. Infatti, i geometri potevano effettuare «operazioni di tracciamento di strade poderali e consorziali ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di strade ordinarie e di canali di irrigazione e di scolo» (art. 16, lettera b del R.D. 271/29), «operazioni topografiche di rilevamento e misurazione» (lettera a), «progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d’industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone …» (lettera l) e via dicendo. Insomma, piccole cose.

Quindi, la figura di un “tecnico diplomato” aveva un senso nel 1929, allorché ingegneri e architetti erano pochissimi e, addirittura, non erano presenti in intere aree del Paese.

Al primo gennaio del 2014 risultavano 236.493 ingegneri iscritti all’Ordine e circa 150mila architetti. I professionisti dell’area tecnica sono 745mila, in Italia. Una enormità. Si è passati da una netta prevalenza della domanda di tecnici, rispetto all’offerta, di cent’anni fa ad un’offerta di tecnici (ingegneri, architetti, geometri e peridi edili) incredibilmente superiore alla domanda. Si è passati, in altre parole, da una forte inflazione da domanda (della prima metà del XX secolo) a una forte inflazione da offerta, conseguenza di una legislazione che – invece di perseguire un sostanziale equilibrio tra domanda e offerta – ha favorito l’abnorme crescita dei tecnici e, come se non bastasse, la più completa deregulation dei compensi professionali e la più totale confusione sui limiti di competenza professionale delle numerose figure tecniche operanti (ingegneri “senior” e junior, architetti “senior” e junior, geometri laureati e non, periti edili, geologi).

Ben lungi dal chiarire i suddetti limiti di competenza, si introducono le più bislacche limitazioni all'esercizio della professione, ignorando il ruolo sociale delle stesse. Ne è formidabile esempio quanto stabilisce il 4° comma dell'art. 1 del Dpcm 5 maggio 2011- «approvazione del modello per il rilevamento dei danni, pronto intervento e agibilità per edifici ordinari nell'emergenza post-sismica e del relativo manuale di compilazione»il quale testualmente recita:

«4. A supporto delle campagne di sopralluogo post-sisma, le Amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano si potranno dotare di elenchi di tecnici che abbiano seguito idonei percorsi formativi con verifica finale e aggiornamenti periodici, concordati con il Dipartimento della protezione civile.

L'iscrizione agli elenchi va confermata ogni cinque anni, a seguito di un aggiornamento formativo da realizzarsi anche mediante opportuni mezzi telematici. Gli elenchi sono trasmessi annualmente al Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri entro il 31 dicembre».

Sicché un ingegnere strutturista (che non abbia frequentato i corsi organizzati dagli Ordini) può essere escluso dalle verifiche di agibilità post-sismica, mentre un tecnico diplomato (che ha frequentato il corso suddetto) è giudicato idoneo ad operare, stante all’accordo di Collaborazione tra il Dipartimento della protezione civile ed il Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, siglato in data 15 dicembre 2010 ed al Protocollo d' intesa, che disciplina l'attività di formazione sul tema Gestione tecnica dell'emergenza.

La transizione dall’organizzazione professionale dell’ancien régime in camicia nera a quello dell’Italia democratica e repubblicana è avvenuto all’insegna della continuità. Nel quadriennio 1951-1954 troviamo, alla presidenza del CNA (Consiglio Nazionale Architetti) Arnaldo Foschini, Segretario del CNA Adalberto Libera nel quadriennio 1955-1958 e come presidente, nel quadriennio 1964-1967 Ferdinando Chiaromonte (massimo esponente del Sindacato fascista architetti della Campania).

 Ferdinando Chiaromonte

Non mancano, ad onor del vero, Consigli Nazionali che, con lungimiranza, reclamano addirittura un autoscioglimento dell’intero apparato ordinistico, come il turbolento mandato del CNA 1971-1973, che vide Renzo Ciardetti e Raoul Gattermayer alternarsi alla presidenza e Piero Gambacciani e il napoletano Gerardo Mazziotti alla segreteria. A dimostrazione che sfrattare il vecchiume, giungendo ad un’organizzazione professionale adeguata ai tempi può (se non, addirittura, “deve”) partire dall’interno degli organi rappresentativi della categoria, acquisita la piena consapevolezza che l’intera legislazione professionale (che pure ha funzionato piuttosto bene per oltre mezzo secolo) è, oggi, assolutamente inadeguata ai tempi.

Risulta, oramai, evidente l’inutilità degli Ordini professionali che andrebbero soppressi o, per lo meno, resi ad iscrizione volontaria (e non obbligatoria), risultato ottenibile semplicemente abrogando la Legge 25 aprile 1938, n. 897.

Ben lungi dall’ammodernare lo stantio apparato legislativo (che pure ha avuto una sua logica e, al netto di qualche nefandezza, la sua utilità per buona parte del secolo scorso) alcuni provvedimenti hanno, di fatto, determinato una crisi profonda ed irreversibile delle professioni di ingegnere e di architetto.

Con il colpevole silenzio degli organi rappresentativi delle categorie, oramai pugili suonati incapaci di reagire, alla mercé di un’obsoleta legislazione fascista che li tiene relegati nella loro conclamata solitudine esistenziale, con Consigli-acquari chiusi su se stessi, in cerca di equilibri interpersonali e di piccolo potere, del tutto lontani dalle necessità degli iscritti. In questo clima appare la Legge 24 marzo 2012, n. 27 (G.U. n. 71 del 24-3-2012 - Suppl. Ordinario n. 53), Presidente del Consiglio dei Ministri l’ineffabile Mario Monti. Il primo comma dell’art. 9 testualmente recita: «Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico» (è anche scritto in un cattivo italiano). Il 4° comma dell’art. 9 sancisce l’obbligo di dotarsi di un’assicurazione professionale e stabilisce come debba essere fissato il compenso: «Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente con in preventivo di massima, deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio».

 

 

Una disanima di tutti i provvedimenti che hanno messo in ginocchio le professioni (dall’incredibile incremento dei contributi minimi Inarcassa a 3.000,00 euro annuo [soggettivo + integrativo + maternità] all’obbligo di dotarsi della macchinetta POS, dalla liceità della pubblicità consentita con ogni mezzo alla necessità di superare cosiddetti “corsi abilitanti” per specifiche e sempre più numerose prestazioni professionali, dall’assicurazione professionale obbligatoria alla formazione continua a pagamento e via dicendo) richiederebbero di allungare questo scritto a dismisura.

Mi pare che si è avuta la diabolica abilità di conservare tutto il pattume della legislazione fascista e (da parte di governi non scaturiti da libere elezioni) introdurre provvedimenti sempre più dissennati, che, invece di individuare rimedi all’annosa crisi del settore dell’Edilizia e a un rilancio delle professioni di ingegnere e di architetto, spingono le stesse sempre più in una condizione di marginalità e di perdita di ogni residuo ruolo sociale.

In base al quadro sommariamente tratteggiato in precedenza mi pare evidente che non esiste alcuna possibilità di dare scacco matto in due mosse (o, addirittura, in una, tramite una petizione online, destinata a lasciare il tempo che trova). Occorre, viceversa e abbandonando la miserevole abitudine del pianto, un impegno corale che si snodi in un arco di tempo certamente non breve e che non può ignorare il pregresso, la storia di cent’anni di professione (in precedenza tratteggiata in maniera necessariamente parziale e sintetica).

Si può chiudere questo scritto con una nota di ottimismo? Credo di sì, affermando che – nonostante l’esorbitante numero di ingegneri e architetti – sarebbe certamente possibile perseguire obiettivi di piena occupazione. Già affrontare la messa in sicurezza dell’enorme patrimonio edilizio esistente (realizzato senza regole sismiche), la soluzione dell’annoso problema del dissesto idrogeologico (rimuovendo tutte le cause, artificiali e naturali che lo producono) rappresenterebbe una formidabile boccata di ossigeno. Se, poi, si volesse effettivamente tutelare e valorizzare il nostro immenso patrimonio monumentale, adeguare le reti dei trasporti e dei servizi, in un’ottica di modernizzazione del paese, effettivamente si aprirebbe una stagione nuova e la storia che ho sommariamente tratteggiata servirebbe a determinarne un superamento (e non già a perpetuarne il mantenimento). 

Aree tematiche: