Intervista impossibile a Marcello Canino (Prima Parte)

Vincenzo Perrone incontra Marcello Canino (3 luglio 1895 – 2 ottobre 1970).

PRIMA PARTE

Perrone: «Egregio Professore, mi fa piacere incontrarla. Forse ci saremo incrociati, in Facoltà, ma io non ne ho memoria. Ho messo piede a Palazzo Gravina esattamente un anno prima che Lei ci lasciasse, giacché mi sono immatricolato nell’anno accademico 1969-70.»

Canino: «Lei entrava in Facoltà mentre io ne uscivo. Sono diventato Professore ordinario di “Composizione Architettonica” nel 1936. Sono uscito fuori ruolo nel 1965, ma ho continuato a insegnare fino al 1969. Giusto quando Lei entrava a Palazzo Gravina, io ne uscivo. Lo veda come un cambio della guardia.»

P.: «E prima del ’36 cosa insegnava?»

C.: «Nel ’29 insegnavo “Disegno Architettonico e Elementi di Composizione”. Nel 1930 conseguii la libera docenza in “Architettura Tecnica”

P.: «Professore, vedo che Lei è di poche parole.»

C.: «Già!»

P.: «Me lo avevano detto. Lei preferisce “fare”, disegnare con la Sua matita, alla quale fa la punta con la lametta da barba Gillette. Credo che non abbia mai usato il temperamatite e i Suoi disegni sono divini.»

C.: «Grazie.»

P.: «Professore, però deve “sciogliersi” un po’, altrimenti che intervista facciamo? Una intervista in cui le domande sono più lunghe delle risposte? Vedo che Lei è elegantissimo: giacca di splendida fattura, camicia inamidata, cravatta regimental da fare invidia e … l’immancabile monocolo. Percepisco un gradevole odore di lavanda e vedo, all’occhiello della giacca, un piccolo distintivo, con due ali dispiegate. Cos’è?»

C.: «Un ricordo delle mie esperienze di guerra. Ho volato sui primi areoplani, nella guerra 15-18. Volare è ben più di uno sport e di un mestiere. Volare è passione e vocazione, che riempie di sé una vita. Io ho volato e … ho volato alto.»

P.: «Aeronautica: arma fascista per eccellenza. Conobbe Italo Balbo?»

C.: «Ero amico di Italo Balbo. Lo feci raffigurare anche nella formella centrale, sul portale d’ingresso del Palazzo della Provincia, a Piazza Matteotti, insieme agli altri tre quadrunviri (Bianchi, De Bono e De Vecchi). La formella fu rimossa dopo la guerra e rimpiazzata da una curiosa sirena con due code (che mi ricorda la barba bifilare di Italo). Balbo venne all’inaugurazione della Mostra d’Oltremare per fare un piacere a me e … mi guastò la festa.»

P.: «Perché?»

C.: «E chi se lo scorda? Era il 9 maggio 1940, una bellissima giornata, tersa e con un sole accecante. La Mostra d’Oltremare fu inaugurata da Sua Maestà Vittorio Emanuele III. C’erano tutti, anche il Principe di Piemonte (il futuro Umberto II, Re di Maggio) con la moglie Maria José del Belgio. Balbo andò a sussurrare, nell’orecchio di Maria José, che la Germania aveva appena invaso Olanda e Belgio. Ovviamente Maria José divenne nera come la pece.

Dopo nemmeno un mese scoppierà la seconda guerra mondiale e l’On. Vincenzo Tecchio comunicherà al Duce che la Mostra d’Oltremare era costretta ad una temporanea chiusura.

Voglio farle un regalo, caro Perrone: una foto del 9 maggio 1940. Vede quel gerarca un po’ stempiato – in camicia nera e stivaloni lucidati a specchio – alla sinistra del Re? Sono io

P.: «Vedo che sta alla sinistra – e un passo avanti – a “sciaboletta”?»

C.: «Perrone! Non le consento di insolentire Sua Maestà! Guardi che chiudo qui quest’intervista.»

P.: «Mi scusi, Professore. Vedo, comunque, che la Sua spalla sopravanza di almeno 20 cm quella di Sua Maestà. Veda … è anche l’invidia che mi fa parlare. Indosserei anch’io una divisa come la Sua. Crede che mi starebbe bene?»

C.: «Magnificamente.»

P.: «Grazie. Ritorniamo alle Sue imprese belliche. Dove ha operato?»

C.: «Presso la 33° squadriglia, 7° gruppo di areoplani. Ho conosciuto il barone Francesco Baracca: asso degli assi dell’aviazione italiana della Grande Guerra, 18° grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, 34 aerei nemici abbattuti (record non ancora eguagliato), morto sul cielo del Montello il 19 giugno 1918, a trent’anni. Comunque, Baracca non fu abbattuto da un altro aeroplano, ma da un cecchino austriaco, che lo centrò giusto in fronte. Voi conoscete il cavallino rampante della “Ferrari”, ma forse ignorate che quello era il simbolo posto sugli aerei di Baracca, a ricordo della Sua provenienza dall’Arma di Cavalleria.

Ci voleva del fegato a salire su quegli aeroplani e io … ci ho volato. Ho fotografato, dall’alto, le linee difensive austriache, il Caposaldo a quota 208 Sud e a quota 205. Mi azzardavo a scendere di quota e le Schwarzlose si accanivano contro di me. Sa, Perrone, cosa sono le Schwarzlose?»

P.: «Certo che lo so! Sono mitragliatrici pesanti (580 colpi al minuto) alimentate a nastro e raffreddate ad acqua e … , quando l’acqua finiva, pisciavano nel serbatoio …»

C.: «Perrone! Un’altra volta con le volgarità? Non ha capito che io sono un gentleman all’inglese, seppure … in camicia nera.»

P.: «Professore, non c’è bisogno che mi redarguisca. Capisco benissimo quando si “scompone” perché il monocolo – all’occhio destro – inizia a vibrare e quando ho parlato di “sciaboletta” ha rischiato di cadere (ma io so che ne ha uno di riserva, nel taschino del panciotto). A proposito di camice nere, quando si iscrisse al Partito Nazionale Fascista?»

C.: «Nel 1930, ottavo anno dell’Era Fascista. Sono stato attivo nel Sindacato Fascista Architetti, ma ho preferito dare spazio a Calza Bini (a livello nazionale) e a Chiaromonte (a livello locale). Ho prescelto di dedicarmi alla Cultura, alla progettazione, al disegno, all’insegnamento, alla lettura dei classici. Si figuri che quando Calza Bini dovette cedere il posto di Segretario Nazionale del Sindacato, mi pregò come un santo affinché accettassi io la nomina. Cortesemente rifiutai e subentrò Enrico Del Debbio.»

P.: «A proposito, Professore, sa come si chiama l’ultimo foro della cinghia (dei pantaloni) degli italiani?»

C.: «Non ne ho la più pallida idea.»

P.: «Il Foro Italico.»

C.: «E’ una boutade che non mi fa ridere.»

P.: «L’ha provocata Lei, parlandomi di Del Debbio. Ma veniamo a noi, cosa Le ha prodotto l’esperienza fascista?»

C.: «La damnatio memoriae

P.: «Professore, si mette anche Lei a parlare latino? Già abbiamo avuto Chiaromonte, che ci ha “allietato” con questa lingua morta.»

C.: « La locuzione latina damnatio memoriae indica un tipo di condanna, in uso nell'antica Roma, consistente nell'eliminazione di tutte le memorie e i ricordi - riguardanti una persona - destinati ai posteri.»

P.: «E’ vero. A Vincenzo Tecchio hanno intitolato il piazzale antistante la Mostra d’Oltremare e hanno dedicato strade a cani e a porci. Lei ha progettato mezza Napoli: il Palazzo della Provincia, il Palazzo dell’INA a Piazza Carità, il Palazzo ad angolo tra Piazza Municipio e Via Marina, il Palazzo della Banca d’Italia ad Angolo tra Piazza Municipio e Via Cervantes, la Mostra d’Oltremare, il Rione Traiano …»

C.: «Basta! Non mi faccia l’elenco di tutte le mie opere! Finiremmo domani mattina.»

P.: «Stavo dicendo che potevano intitolarle una strada o una piazza. Ad esempio, al Rione Traiano (che Lei ha progettato, compresa la Chiesa di Piazza Ettore Vitale) o un vicoletto nei pressi di Palazzo Gravina.»

C.: «Crede che me ne importi?»

P.: «Se permette, importa a me. Se una categoria professionale dimentica chi la creò (gli Architetti semplicemente non esistevano prima di Lei, Giovannoni, Calza Bini e pochi altri decisero di farla sorgere dal nulla) che futuro potrà mai avere? E’ destinata a finire.»

C.: «Mio caro amico, non si è accorto che la categoria è già finita? L’Architettura è Arte. Le Facoltà devono trasmettere il mestiere. Formare gli Architetti non è facile e … non si può insegnare a progettare, se non si è “operativi”. E’ stata una follia introdurre il “full time”, inibire – a un docente di “Composizione Architettonica” – l’attività professionale, che – invece – dovrebbe essere obbligatoria …».

P.: «Lasciamo Perdere. Professore, Lei quando si è laureato in Architettura?»

C.: «Io non sono affatto laureato in Architettura. Sono laureato in Ingegneria Civile. All’epoca la Facoltà di Ingegneria durava tre anni (il “triennio di applicazione”), ma si poteva accedere solo dopo aver superato il biennio presso la Facoltà di Matematica e Fisica. Erano due anni di studio molto intenso: Analisi Matematica, Algebrica ed Infinitesimale, Geometria Analitica e Proiettiva, Geometria Descrittiva con Disegno, Meccanica Razionale, Fisica, Chimica e via dicendo. Poi, si passava a Ingegneria. Tra l’una e l’altra cosa, mi capitò la guerra 15-18; ma già frequentavo gli studi di Arata dell’Ing. Barone Costa. Già seguivo Benedetto Croce, di cui conosco a menadito tutte le opere. Abitavamo a due passi di distanza: Croce a Palazzo Filomarino ed io a Casa Calenda, di fronte alla guglia di Piazza San Domenico Maggiore.»

P.: «Professore, fermiamoci qui. Mi sta dicendo troppe cose e … sono un po’ frastornato. Prendiamoci una pausa e, poi, riprenderemo questa interessante intervista.»

C.: «Va bene, vado a farmi quattro passi per la mia Napoli.»

P.: «Qual è la Sua Napoli?»

C.: «E’ quella del Centro Antico. Ho studiato al Liceo Classico “Genovesi” a Piazza del Gesù, abitavo – come Le ho appena detto – al primo piano di Casa Calenda a Piazza San Domenico Maggiore, mio fratello era pediatra e abitava a Calata Trinità Maggiore. Non so se farò un salto a Palazzo Gravina.»

P.: «Faccia un salto anche al Palazzo della Provincia, per vedere se la formella di bronzo del portale, dov’è raffigurata Lei seduto e lo scultore De Veroli in piedi, sta sempre al suo posto.»

C.: «Questo non lo doveva dire. Adesso c’è il rischio che rimuovano un’altra formella di bronzo dal portale del palazzo.»

       S.M. Vittorio Emanuele III tra Italo Balbo e Marcello Canino.

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